Ipotermia, incubo dei mesi invernali
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Chi ama il mare a 360 gradi, in particolare chi predilige la navigazione a vela, sa che la stagione invernale può regalare momenti straordinari per un gran numero di ragioni: il vento innanzitutto, che nei mesi estivi spesso si fa desiderare, d’inverno non manca quasi mai; i porti costano pochissimo; in giro non c’è nessuno o quasi, e di conseguenza le rade inavvicinabili ad agosto diventano alla portata di chiunque per un comodo ormeggio. L’unico aspetto negativo, per chi ama il caldo, è ovviamente il clima che, in particolare nel Nord Tirreno e Nord Adriatico, è rigido. Sul fronte della navigazione non è un problema insormontabile, basta vestirsi in modo adeguato e si affronta senza problemi anche a gennaio. Sul fronte della sicurezza, è invece un parametro da tenere in drammatica considerazione nel caso dello scenario peggiore, ossia di una caduta in acqua. Se i mesi invernali hanno un lato estremamente negativo, è proprio questo: ciò che in estate può essere ricordato come un momento di paura per un banale incidente di bordo, in pieno inverno il rischio di una caduta in mare è mortale ed è di gran lunga il peggio che possa succedere perché le possibilità di sopravvivenza si riducono a pochissimi minuti a causa del fenomeno dell’ipotermia, ossia la riduzione repentina della temperatura corporea.
L’ipotermia inizia a presentarsi quando la temperatura scende al di sotto dei 35 gradi e ha naturalmente sintomi differenti e conseguenze ben diverse, spesso mortali sia in alta montagna sia in mare. Per quanto riguarda il mare, tutto dipende dalla latitudine e, di conseguenza, dalla temperatura dell’acqua. Nel Nord Tirreno, nei mesi invernali, l’acqua ha temperature attorno ai 5 gradi. A dieci gradi, un corpo dopo 3-4 ore ha poche possibilità di sopravvivere. Nel Mar Artico, ad esempio, questa possibilità si riduce a qualche minuto. L’immersione in acqua causa una dispersione di calore molto maggiore rispetto all’aria, a causa della differenza di temperatura tra il corpo e l’ambiente circostante, in questo caso il mare. Nell’acqua, in particolare, la dispersione di calore è 26 volte maggiore rispetto all’aria a parità di temperatura. Si manifesta fin dai primi istanti uno shock termico che causa un aumento della respirazione fino all’iperventilazione, con un conseguente senso di disorientamento e confusione. Con l’aumentare della problematica, sopraggiunge l’attacco cardiaco e la morte. Secondo studi scientifici l’ipotermia nel mar Mediterraneo, nei mesi estivi, sopraggiunge dopo che sono trascorse tra le due e le 12 ore. Naturalmente è spesso un’ipotermia lieve, che subentra quando la temperatura del corpo scende tra i 35 e i 32 gradi. In linea generale, i tempi di sopravvivenza sono inferiori alle quindici ore se la temperatura dell’acqua è tra i 15 e i 20 gradi, e scende a 6 ore tra i dieci e in quindici gradi. Tra 4 e 10 gradi la morte sopraggiunge al massimo entro tre ore, che si dimezzano in caso di acqua tra i due e i quattro gradi, e diventano di soli 45 minuti in caso di caduta in acqua a 2 gradi. Al di sotto di questa temperatura, la morte sopraggiunge in pochissimi minuti.
Se la temperatura scende tra i 28 e i 32 gradi, si parla di ipotermia moderata. Sotto i 28 gradi è un’ipotermia grave. I primi effetti sono l’aumento di battito cardiaco causato dal fatto che l’emoglobina non è più in grado di rilasciare ossigeno ai tessuti. Con l’aumentare della gravità dell’ipotermia, quindi con l’abbassamento della temperatura corporea, subentra la bradicardia e il conseguente choc dei centri respiratori. Una tipica conseguenza di ciò è la necrosi dei tessuti, ossia la morte dei tessuti perché non ricevono più ossigeno, e causa uno dei fenomeni tipici che colpiscono gli alpinisti, ossia la perdita degli arti (le dita, nei casi più fortunati) a causa della necrosi. Quando la temperatura corporea scende sotto il 28 gradi subentra il coma, l’edema polmonare, l’assenza di riflessi anche delle pupille, e di conseguenza la morte. Ci sono stati casi di alpinisti salvati con la temperatura corporea a 25 gradi, ma sono rarissimi e in quei casi la rapidità dell’intervento sanitario in strutture ad altissima specializzazione ha fatto la differenza, mentre in mare purtroppo un soccorso ha tempi spesso molto più lunghi per la difficoltà nel localizzare un naufrago. È banalmente molto più facile trovare un alpinista ferito a 4 mila metri che un uomo disperso in mare, e in quei casi la velocità di localizzazione e terapia fa la differenza tra vivere e morire.
Nel caso del recupero di un uomo a mare, è consigliabile muoverlo delicatamente per evitare un ulteriore calo termico che potrebbe essere fatale, bisogna poi lasciarlo in posizione orizzontale e metterlo al riparo dal vento, rimuovendo gli abiti bagnati e usando coperte isotermiche per impedire ulteriore dispersione di calore. Nella malaugurata ipotesi di caduta in mare in acque fredde invece non bisogna commettere l’errore di tentare di nuotare nell’illusione di riscaldarsi, perché accade esattamente il contrario, si perde calore più in fretta. Gli esperti consigliano, per quanto possibile, di mantenere la cosiddetta Help Position, ossia la Heat Escape Lessening Posture, una posizione semi eretta con il capo tenuto a galla dal giubbotto di salvataggio, le braccia chiuse lungo il corpo e le gambe strette e intrecciate.
Un grande aiuto può darlo naturalmente l’abbigliamento del naufrago, perché esistono particolari indumenti tecnici, come le tute termiche, che permettono di prolungare i tempi di sopravvivenza ma sono di solito una prerogativa di professionisti della vela e difficilmente si vedono nel gavone di qualche barca da diporto. A far la differenza, quindi, è soltanto la velocità nei soccorsi. Per questo motivo bisognerebbe sempre avere addosso uno dei dispositivi di emergenza individuale, tipo Plb per intenderci, nella speranza di essere individuati nel minor tempo possibile.


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