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Una barca a vela è gioia e dolore: per entrambi gli aspetti, c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Ma se ognuno di noi ha i cassetti e i computer pieni di fotografie che ricordano momenti magici vissuti in navigazione, difficilmente si è trovato il modo e il tempo di immortalare anche i momenti meno piacevoli, eppure ci sono per tutti e ci saranno sempre.

La barca a vela, infatti, sa regalare emozioni indimenticabili ma, complici disattenzione o imprudenza, sa anche trasformarsi in un battibaleno nel più micidiale mezzo per farsi del male. Alzi la mano chi non è mai rientrato in porto con un cerotto, una fasciatura, un alluce gonfio o una costola malconcia.

Sono tali e tante le occasioni in cui il velista sbadato può lanciare al vento il suo grido di dolore, che si potrebbe riempire un libro. La barca a vela, naturalmente, non ha colpe: lei è fatta così, piena di attrezzature in acciaio o alluminio su cui lasciarci un alluce o un gomito, strabordante di drizze, scotte e cime su cui inciampare.

Scivolosa in determinati punti quel tanto che basta per decollare dentro un tambucio o con la schiena su un winch, e con quei boma che hanno il maledetto vizio di muoversi forsennatamente proprio quando il malcapitato dimentica di abbassare la testa e riceve così la benedizione in piena fronte, o in piena nuca a seconda che stia guardando da una parte o dall’altra, di certo dalla parte sbagliata.

Sì, in barca a vela ci sono mille modi per farsi male. Eppure lei, la barca appunto, è innocente: non è lei a tendere i trabocchetti, siamo noi a dimenticarci di come è fatta. I suoi winch sono nello stesso identico punto da anni, a volte decenni; le scotte e le drizze sono innocue e non tradiscono nessuno, se vengono addugliate e riposte nel modo corretto; la scaletta per scendere sottocoperta è comoda e rivestita di antisdrucciolo, se il piede lo appoggi nel punto giusto quando scendi, altrimenti rischi di atterrare malamente di faccia sul lavello, o peggio.

E il boma, come possiamo incolpare il povero boma di tante botte terrificanti (alcune purtroppo anche con gravi conseguenze) quando lui si muove solo con vento e/o onde e, soprattutto, è sempre alla stessa altezza? E la barra del timone, magari con il supporto d’acciaio del pilota automatico, l’hanno forse installata stanotte a nostra insaputa? No, è sempre stata lì, siamo noi che nel momento sbagliato abbiamo perso la presa e le siamo atterrati sopra, rimettendoci un paio di costole. E le passerelle? Si muovono, certo, e se non le fissi bene, il rischio di farsi un bagno indesiderato, se non di peggio, è dietro l’angolo.

Insomma, ovunque ti giri, sulla barca a vela hai un potenziale dolore in arrivo. Tuttavia, la stragrande maggioranza degli incidenti, banali e meno banali, si potrebbe tranquillamente evitare con un minimo di attenzione e qualche precauzione. Parlo con una discreta cognizione di causa e un buon curriculum di cui (poco) vantarmi: un giorno dopo aver fatto una ventina di volte avanti e indietro tra banchina e barca ormeggiata, durante una serie di lavori mi è successo di spaccarmi letteralmente la testa contro il boma nella ventunesima volta in cui salivo sulla barca.

Non era il boma a essersi mosso, era sempre lì dove l’avevo saldamente fissato a centro barca. Ero io, in un attimo di sonnolenza, a essermi dimenticato di abbassare la testa per passargli sotto. Risultato: schianto contro la varea e le uscite spigolosissime delle borose, giro premio in ambulanza e cinque punti di sutura.

In un’altra occasione, peraltro una notte di gennaio, in un eccesso di pigrizia iniziai a caricare i bagagli senza fissare bene la passerella, “tanto non c’è onda”. Poi passò una barchetta nel momento sbagliato, ossia mentre io ero sulla passerella, e il lieve movimento fu più che sufficiente per farmi perdere l’equilibrio, spostare l’asse e finire dritto nelle acque gelide del porto.

Insomma, attenzione innanzitutto. E poi qualche accorgimento fondamentale. Se non volete, o prima o dopo, lasciare un alluce contro un winch, una rotaia o un bozzello, indossate sempre le scarpe quando dovete manovrare in coperta. Scarpe, ovviamente, con suola adeguata antiscivolo, altrimenti rischiate anche schianti rovinosi.

La vecchissima regola del “una mano per te e una per la barca” è sempre attuale: mai muoversi senza tenersi, perché ci vuol poco a perdere l’equilibrio. In questo caso, è particolarmente rischioso in caso di onda scendere sottocoperta, magari quando si è anche colpiti da un attacco di mal di mare: in tanti sono scivolati sulla scaletta per non aver provveduto a tenersi con entrambe le mani ai tientibene, se presenti, o a qualunque appiglio nei dintorni.

Gli urti maggiori avvengono nella zona del pozzetto, dove con barca sbandata è sempre opportuno prestare massima allerta: tenersi saldamente alle draglie puntando i piedi evita cadute spesso rovinose. A proposito del pozzetto, il boma merita particolare attenzione: è di gran lunga la parte più pericolosa della barca e un suo movimento improvviso e violento può essere mortale su scafi di maggiori dimensioni; è d’obbligo mantenersi sempre al di sotto del suo raggio di azione, senza dare per scontato il suo immobilismo durante la navigazione, perché l’onda e il colpo di vento che “gira” sono sempre possibili, con esiti nefasti.

Stessa precauzione quando, con condizioni meteo apparentemente tranquille, qualcuno decide di alzarsi per andare a prua: sempre testa bassa, sempre attenzione anche al paranco della scotta randa (può far male quasi quanto il boma) e mai passare sopravento al boma in andature portanti perché in caso di strambata involontaria il colpo sarebbe violentissimo.

In caso di manovre all’albero in presenza di onde, è opportuno legarsi con le cinture di sicurezza: l’ideale è avere le life-line armate e che corrono lungo l’asse prua-poppa, altrimenti può servire allo scopo anche legarsi all’albero stesso o a qualche golfare, purché naturalmente a centro scafo e non a ridosso della falchetta, dove sarebbe assai alto il rischio di una caduta fuoribordo. Non sono esenti da guai anche le operazioni di ancoraggio in rada: chi va al verricello deve sempre indossare le scarpe ed evitare, per quanto possibile, di toccare con le mani la catena in movimento. In assenza di verricello, bloccare sempre la discesa della catena usando la suola della scarpa.

Stessa prudenza per l’ormeggio in banchina: le trappe andrebbero sempre afferrate indossando guanti del tipo da cantiere, perché le parti sommerse e ricoperte di vegetazione hanno spesso anche denti di cane e conchiglie di vario genere, particolarmente taglienti. Mai tesare le trappe usando solo la forza delle braccia, ma far forza soprattutto sulle gambe se volete evitare “colpi della strega” che hanno messo Ko più di un velista.

E per finire, la passerella: se non fissata o usata con superficialità o eccesso di sicurezza, può essere davvero pericolosa. Meglio aspettare qualche minuto in più e usarla soltanto quando è perfettamente fissata e sufficientemente stabile.

E in ultimo, un conto è la distrazione del velista consapevole, un altro è l’incoscienza che rasenta la follia: ci sono casi di persone che scendono in banchina con il cavo della 220, lo allacciano alla colonnina e poi risalgono sulla passerella con in mano l’altro capo, per andare a inserire la spina sulla barca. In questo modo passeggiano tranquillamente sull’acqua portandosi appresso un cavo con la corrente già aperta, con tutti i rischi facilmente immaginabili.

Buona prudenza a tutti.

Stefano Sergi