Volo e vela: Vendée Globe, Coppa America e dintorni
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Il 22 agosto 1851 il Royal Yacht Squadron organizzò quella che oggi si definirebbe forse “una regata di circolo” su un percorso che si snodava attorno all’Isola di Wight.
Vi parteciparono 14 imbarcazioni locali ed una barca del New York Yacht Club. In palio c’era una brocca in argento (piuttosto bruttina a dire la verità) costata la bella cifra di 100 Ghinee, conio in oro all’epoca parallelo al Pound britannico.
Se potessi disporre della macchina del tempo, uno dei viaggi che mi piacerebbe compiere è una capatina sulla spiaggia di Cowes in quel pomeriggio estivo e guardare la faccia della regina Vittoria quando vide sfilare davanti a lei l’unica barca americana presente che stava distaccando di 8 minuti il secondo, il cutter britannico Aurora. Una disfatta che costrinse un anonimo e malcapitato ufficiale di regata a sussurrare alla sovrana la famosa frase: “There is no second, your Majesty”.

Quella barca americana era lo schooner America; meglio invelata e decisamente più veloce di quelle dei padroni di casa britannici. America era una barca più moderna delle altre concorrenti: America era una barca all’avanguardia.
Iniziò così la storia della Coppa America, che nei decenni successivi si spostò sull’altra sponda dell’Atlantico ripiombando in una routine poco più che da “regata di circolo”; fino al 1983 anno in cui Alan Bond – un bizzarro australiano – strappò la coppa agli intorpiditi americani grazie ad un timoniere di eccezione ma grazie – soprattutto – ad una barca che sfoggiava una chiglia del tutto rivoluzionaria: Australia II con il suo famoso bulbo alato.
La tecnologia progettuale e costruttiva aveva sparigliato tutto, aveva portato scompiglio nelle ovattate stanze del New York Yacht Club, e soprattutto da quel momento la Coppa America ne sarebbe stata del tutto dipendente. Capite dove voglio andare a parare?

Cambiamo scena: Alla Ostar del 1976 tutti rimasero perplessi quando Alain Colas si presentò sulla linea di partenza con Club Méditerranée, 72 metri di barca (la più grande che abbia mai partecipato a una regata oceanica), 1000 mq di vele, 280 tonnellate di peso e quattro alberi. Un concentrato assoluto di tecnologia che Colas governava da solo. Senza troppo successo ad essere del tutto onesti: il francese arriverà quinto 7 ore e 28 minuti dietro al vincitore Eric Tabarly sul Pen Duick VI, lungo “solo” 22,25 metri. Anche in questo caso – al di là del risultato non eccellente – si era trattato dell’irrompere nella scena di una iniezione di tecnologia che non avrebbe più fatto passi indietro nelle regate d’altura.
Qui sta il punto: l’evoluzione non si ferma e – sopratutto – l’evoluzione è un movimento lineare che ha dei picchi ma che tende all’alto in modo inarrestabile, e che non è iniziata oggi. Il punto è che noi velisti siamo una tribù decisamente restia ad accogliere l’evoluzione della barca a vela.
Oggi l’evoluzione in alcune classi si chiama foil; oggi esiste un nuovo assetto di navigazione che prevede il sollevamento dalla superficie dell’acqua, sui foil, appunto.
Questo non vuole dire che la vela è solo quella, ma quella è una “nicchia” destinata ad allargarsi. Francamente mi è abbastanza incomprensibile la reticenza del velista medio verso questa nuova frontiera: se – per esempio – su un blog di vela qualcuno posta la foto di un Imoca 60 con i foil o un Ac75, leggendo i commenti ci si trova di fronte a un muro di rifiuti.
Fatti 10 i velisti che digitano la loro opinione, si può scommettere che almeno sette si lasceranno andare ad una serie di considerazioni su quanto era bella la vela di un tempo (ma poi quale tempo? il loro ovviamente) e via discorrendo su quanto queste barche siano brutte, inutili ed addirittura pericolose.
Quello che non si capisce è il perché si debba negare che un progetto disegnato oggi possa essere, tra qualche decina d’anni, un nuovo J Class, una nuova Croce del Sud, Moro di Venezia o qualsiasi altra barca d’epoca oggi sia ammirata e venerata come pietra miliare della progettazione navale.

Il punto a mio parere è un po’ diverso: quello degli ultimi anni è un salto tecnologico che ci spiazza, una tecnologia che non sappiamo usare; queste sono barche che non assomigliano alle nostre e su cui con difficoltà potremmo immaginare di navigare.
Sarei sinceramente curioso (e diciamolo abbastanza divertito) di vedere come qualcuno di noi se la caverebbe al comando di un J Class o di una barca da regata spinta degli anni ’70, eppure quelle barche ci appaiono rassicuranti e famigliari esattamente come le nostre; fanno parte del nostro immaginario e la loro conduzione assomiglia a quella delle nostre amate.
Oggi il paradigma è cambiato, da un po’ di tempo a questa parte (un bel po’ ad essere onesti ma forse non ce ne eravamo accorti) partecipare alla Coppa America o ad una regata intorno al mondo come la Vendèe Globe presuppone una campagna molto impegnativa dal punto di vista economico ed un enorme sforzo che si sviluppa diverse fasi. Parliamo di fase progettuale, di ricerca e sviluppo, logistico, organizzativo e di preparazione degli equipaggi con un approccio del tutto diverso da quello “classico”. I materiali hanno assunto una importanza vitale (da qui la ricerca che sconfina in ambito aeronautico) e la tecnica di navigazione e conduzione è estremamente diversa da quella tradizionale.
Fino a pochi decenni fa la preparazione di una campagna di Coppa America – fatte salve le dovute proporzioni – poteva in un certo senso assomigliare alla preparazione di una stagione di regate a livello medio alto: cura del fisico, attenzione sui materiali, affinamento della squadra, affiatamento in manovra e studio della tattica di regata.
Ripeto, con le dovute proporzioni (non massacratemi!) ma in fondo la ricetta ci era abbastanza familiare ed ognuno di noi in cuor suo poteva paragonare se stesso agli skipper di qualche grande squadra velica.
Oggi “tutta questa tecnologia” ci infastidisce e ci fa sospirare pensando ai bei tempi andati. Il problema però non è la tecnologia, il problema siamo noi che non la comprendiamo.

Se guardando una regata di Coppa America non riesco neppure a capire come funziona il percorso la colpa non è della tecnologia, la colpa è mia che non mi sono dato pena di leggere e comprendere il regolamento. Se ho l’impressione che i trimmer siano ciclisti che pedalano a vuoto, se non capisco chi è il tattico e perché ci sono due timonieri è perché non sono aggiornato sulla tecnologia e sulla conduzione di queste barche.
Oggi si vola, o meglio si naviga in assetto su foil ma non dimentichiamo che la forza propulsiva è sempre il vento, quello solito, quello “antico”, quello che spinge anche noi nelle nostre regate di circolo o nella nostra crociera estiva. Queste barche sono spinte dal vento, queste sono barche a vela.
Certo, alcuni problemi di affidabilità sono sotto gli occhi di tutti, alcune clamorose avarie nel corso della Vendèe o la scuffia in volo di American Magic hanno fatto un certo scalpore, ma abbiamo dimenticato una regata di qualche decennio fa con 15 velisti morti, 24 barche abbandonate, 194 (su 303 partite) ritirate? Era l’11 agosto del 1979, era il Fastnet della tragedia.
Perché ci preoccupiamo allora? Perché questa prevenzione? forse perché ci pare che la tecnologia si stia sostituendo a noi nel compiere molte azioni a cui eravamo tanto affezionati ma dal valore aggiunto scarso o addirittura inesistente. La tecnologia comincia a sostituirsi a noi anche nell’elaborazione del pensiero semplice, quello che bene o male sappiamo formulare tutti.
In sostanza, la tecnologia ci sta sottraendo quello in cui ci sentivamo bravi, lasciando a noi solo attività e pensieri complessi e mettendo così a nudo la debolezza dell’uomo comune: tutti infatti saremmo in condizione di compiere quelle attività e formulare ragionamenti anche molto complessi ma solo in pochi possono davvero farlo. Questo, inconsciamente, ci da fastidio, ci fa paura.
La mia modesta conclusione, amici, è che dovremmo metterci comodi in poltrona e goderci la Coppa America, dovremmo goderci la Vendèe per quello che sono: l’espressione più recente e più evoluta del nostro amato sport, l’ispirazione, lo state of the art; la finestra per capire dove stiamo andando e come ci stiamo andando.
Del resto – consentitemi la frecciatina – sono certo che tra noi moltissimi sono ancora quelli che in navigazione usano regolarmente il sestante… ah no?
Buon vento, ci vediamo in mare!
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